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È tempo che il mondo parli del Kashmir: c’è in gioco la sicurezza globale

Non si tratta soltanto di dispute territoriali. La situazione del Kashmir è prima di tutto una questione di diritti umani, autodeterminazione e sicurezza globale
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Nel silenzio prolungato della diplomazia internazionale, il Kashmir continua a rappresentare una ferita aperta nel cuore dell’Asia meridionale. Troppo a lungo il conflitto tra India e Pakistan è stato ignorato o trattato come una questione secondaria dagli attori globali. Ora però, con la recente disponibilità annunciata dal Donald Trump, a mediare tra queste due potenze nucleari, credo che il momento sia finalmente maturo perché il mondo si esprima con chiarezza.

Trump ha affermato di voler risolvere “differenze radicate tra i Paesi” e, a mio avviso, il Kashmir non può restare escluso da questa iniziativa. Il ruolo di Trump come mediatore potrebbe portare al tavolo delle trattative India e Pakistan, intrappolate da decenni in un confronto congelato, ma potenzialmente esplosivo.

Tuttavia, non si tratta soltanto di dispute territoriali. La situazione del Kashmir è prima di tutto una questione di diritti umani, autodeterminazione e sicurezza globale. Milioni di civili vivono quotidianamente sotto militarizzazione, privati di libertà e dignità. Questo rende urgente un’azione diplomatica multilaterale, in cui Nazioni Unite, Unione Europea e potenze emergenti assumano posizioni chiare e coordinate. A mio giudizio, è necessario che anche l’India sia incoraggiata o persino spinta ad accettare un dialogo sincero.

Segnali concreti giungono dal Pakistan, che si è attivato diplomaticamente, inviando missioni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in questi giorni a Bruxelles, con la delegazione guidata da Bilawal Bhutto Zardari, ex ministro degli Esteri del Pakistan. L’obiettivo è riportare il Kashmir al centro dell’agenda internazionale, richiedendo un processo di pace equo e rispettoso della volontà delle popolazioni locali.

Parallelamente, l’ombra delle minacce nucleari torna ad agitare il panorama internazionale, alimentata dalla recente guerra tra Iran e Israele. Il Pakistan, unico paese islamico dotato di armi nucleari, guarda con preoccupazione alle dichiarazioni attribuite al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il quale avrebbe identificato sia l’Iran che il Pakistan come minacce nucleari alla sicurezza globale, in particolare per Israele.

Questa retorica non può essere ignorata da Islamabad, che percepisce chiaramente come la minaccia oggi rivolta all’Iran possa rapidamente estendersi al Pakistan stesso. Il 14 giugno, Khawaja Asif, ministro della Difesa pakistano, ha sollecitato l’unità dei paesi musulmani contro Israele, sottolineando che l’attacco odierno contro Teheran potrebbe riguardare domani qualsiasi altra nazione islamica, incluso il Pakistan (i due paesi sono confinati).

Se guardiamo verso la recente mediazione degli Stati Uniti, guidata proprio da Trump, che ha contribuito a fermare una breve ma intensa guerra tra India e Pakistan, ha rafforzato significativamente la posizione diplomatica di Islamabad. Credo che oggi più che mai il Pakistan sia consapevole del suo peso geopolitico e militare e che sia determinato a utilizzare questo vantaggio per scoraggiare qualsiasi escalation che minacci la stabilità regionale.

In definitiva, credo che il conflitto in Kashmir e la tensione tra Iran e Israele siano collegati a una più ampia instabilità regionale. È urgente un intervento internazionale coordinato. Il Kashmir non può più aspettare soluzioni rinviate, e il Pakistan, cosciente della sua posizione nucleare, non resterà inattivo. Solo risolvendo queste crisi interconnesse si potrà garantire sicurezza, dignità e libertà ai popoli coinvolti.

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